La recente sentenza della Corte di Appello di Bari n. 125 del 23 gennaio 2020 ci offre l’occasione di esaminare ancora una volta la vexata quaestiodella mora usuraria e, segnatamente, la questione concernente la nullità parziale del contratto di mutuo con applicazione della sanzione della gratuità degli interessi, ai sensi dell’art. 1815, 2° comma c.c., anche in caso di superamento del tasso soglia dei soli interessi di mora.
L’argomento è di particolare interesse alla luce dell’Ordinanza interlocutoria della Prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione n. 26946 del 22 ottobre 2019, con la quale le problematiche della mora usuraria sono state rimesse al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite e, prima ancora, avuto riguardo alla precedente sentenza della Terza Sezione della Corte di Cassazione n. 26286 del 17 ottobre 2019 con la quale il giudice di legittimità aveva assunto una posizione diametralmente opposta a quella precedentemente ribadita dalla medesima Terza Sezione con la nota ordinanza n. 27442 del 30 ottobre 2018.
Prima di analizzare – in modo molto sintetico – le diverse tesi sull’argomento, occorre puntualizzare che la Corte d’Appello di Bari, con la sentenza in commento, ha avuto il pregio di pronunciarsi proprio in relazione ad un caso in cui gli interessi moratori pattuiti ultra-soglia, di fatto non erano stati mai applicati (cd. “mora potenziale”), affrontando in tal modo la questione relativa “all’efficacia vincolante (…) della nullità della pattuizione inerente il tasso degli interessi moratori allorché (…) risultano superiori al tasso ex L. 108/96”, per confermare l’indirizzo, invero maggioritario tra i giudici di legittimità, ma forse di recente minoritario tra i giudici di merito, secondo cui anche nel caso in cui i soli interessi moratori superino il Tasso Soglia d’usura (siano cioè ultra-soglia) trova applicazione la sanzione della gratuità del mutuo, ai sensi dell’art. 1815, 2° comma c.c.
La Corte di Appello di Bari confuta espressamente il principio che aveva ispirato la decisione del Giudice di prime cure (e, forse, la parte maggioritaria della giurisprudenza di merito), secondo cui bisognerebbe “escludere il riverbero della nullità relativa ai tassi moratori anche alla clausola inerente quelli corrispettivi, così preservando l’onerosità del mutuo, (…) rimarcando la distinzione ontologica delle due categorie di interessi, strumentali a due distinte ed autonome funzioni: remunerativa quella degli interessi corrispettivi e risarcitoria quella, residuale ed eventuale, degli interessi moratori”.Per la precisione, secondo il Tribunale, posto che l’applicazione dell’una o dell’altra categoria di interessi si pone in via alternativa, a seconda che ricorra, l’ipotesi “fisiologica” dell’esecuzione corretta del contratto, ovvero quella “patologica” dell’inadempimento, la nullità della sola clausola degli interessi moratori“non pregiudica la validità della clausola relativa agli interessi corrispettivi in conformità del disposto di cui all’art. 1419 c.c.”
Al contrario, è proprio il suddetto assunto che la Corte barese contesta recisamente. Ammessa e non concessa, infatti, “la perfetta autonomia delle due categorie di interessi inseriti nel mutuo”, la tesi sopra riportata risulta comunquecontra legemperché“determinerebbe, di fatto, la disapplicazione dell’art. 1815 2° comma, così come novellato dalla legge antiusura”.
Per la precisione, la tesi suddetta disattende un principio giuridico enunciato da molteplici pronunce della Corte di Cassazione, tra le quali la più nota è proprio la sentenza n. 350/2013, secondo cui per la determinazione dell’interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate all’erogazione del credito, con l’ulteriore precisazione che “ai fini dell’applicazione dell’art. 644 c.p. e dell’art. 1815, comma 2 c.c., si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, quindi, anche a titolo di interessi moratori”(Cfr. Cass. sent. n. 350/2013).
Sulla scorta di tale principio, continua la corte barese, “la distinzione “ontologica” delle due sia pur distinte categorie di interessi, non rileva ai fini del superamento del tasso e della qualificazione di usurario dell’interesse, rimanendo sufficiente la semplice promessa e convenzione, prescindendo dalla funzione fisiologica o patologica-sostitutiva dell’interesse predetto (v. anche Cass. 5324/2003 e Corte Cost. 25/2/2002 n. 29)”.
Peraltro, il principio secondo cui la legge anti-usura riguarda sia gli interessi corrispettivi che quelli moratori, risulta viepiù confermato da un consolidato orientamento della Suprema Corte di Cassazione e tra le molteplici ed univoche pronunce sul punto, vanno senz’altro enumerate le ordinanze della VI sez. civile del 6 marzo 2017 n. 5598 e quella n. 23192 del 4 ottobre 2017.
Ebbene, secondo la Corte pugliese l’aspetto dirimente, che impone di aderire alla cd. “tesi della estensibilità del vizio del tasso di mora a quello corrispettivo”è costituito, appunto, dal rilievo che, diversamente opinando, “si vanificherebbe la stessa ratio della riforma operata dalla L. 108/96”.
Com’è noto, infatti, la legge anti-usura e, segnatamente, l’art. 4 della legge 7 marzo 1996 n. 108 ha altresì novellato il 2° comma dell’art. 1815 c.c., sostituendo alla precedente formulazione (secondo cui nel caso in cui fossero convenuti interessi usurari la clausola era nulla ed erano dovuti interessi al saggio legale), quella attualmente in vigore, in base alla quale “se sono convenuti interessi usurari la clausola è nulla e non sono dovuti interessi”(Cfr. art. 1815, 2° comma c.c.). Lo scopo della novella è stato quello di INASPRIRE LA SANZIONEconseguente alla pattuizione di interessi usurari, comminando – appunto – la sanzione civilistica della gratuità del contratto.
E ciò, aggiungiamo noi, senza distinzioni di sorta tra interessi “corrispettivi” e interessi “moratori”, posto che la legge di interpretazione autentica del 2001 aveva fatto riferimento espresso proprio al principio secondo cui “si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento de loro pagamento”(Cfr. art. 1 del D.L. 29.12.2000 n. 394 convertito con modifiche nella L. 28.2.2001 n. 24). In tal senso, si noti che sono proprio le parole utilizzate dal legislatore (i.e. “a qualunque titolo”) ad escludere che, ai fini della normativa anti-usura, si possa operare una qualsiasi distinzione tra interessi corrispettivi ed interessi moratori.
È di solare evidenza che il legislatore del 1996 aveva previsto, a tutela del mutuatario, quale deterrente alla pattuizione di interessi usurari, la sanzione della gratuità del contratto.
Tali principi, inoltre, erano stati confermati anche dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione che, con la nota sentenza n. 24675 del 19 ottobre 2017 sull’usura sopravvenuta, avevano avuto il pregio di stabilire – quanto meno – un principio rigoroso e, segnatamente, quello secondo cui, avuto riguardo alla Legge di interpretazione autentica n. 24/01, per l’accertamento dell’usura bisogna considerare esclusivamente e tassativamente il momento pattizio, cioè il momento in cui gli interessi “sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.
Pertanto, le Sezioni Unite, facendo coincidere il momento in cui è configurabile l’illecito civile con quello in cui è configurabile la violazione dell’art. 644 c.p.[1], avevano posto l’accento sul “momento della pattuizione degli interessi, valorizzando in tal modo il profilo della volontà e dunque della responsabilità dell’agente”(Cfr. n. 24675/17, punto 3.4.1pag. 10) e avevano confermato, pertanto, il principio ribadito dall’Ordinanza del 4 ottobre 2017 n. 23192 sopra citata, peraltro già espresso in altre pronunce (Cfr. Cass. n. 14899/00; Cass. n. 5324/2003; Cass. n. 5598/2017), secondo cui la valutazione dell’usurarietà del contratto va effettuata al momento della pattuizione e, come visto, deve riguardare, a norma dell’art. 644 c.p., tutti gli interessi “a qualunque titolo convenuti”sulla base di un unico Tasso Soglia.
L’usura è, infatti, un reato di pericolo concreto che si commette nel momento stesso della conclusione del contratto (cd. “reato in contratto”).
Porre l’accento sul momento perfezionativo del contratto e sulla coincidenza tra la violazione civilistica e quella penale, costituita dal superamento dell’unico Tasso Soglia a prescindere dalla tipologia di interesse (corrispettivo o moratorio che sia), significa escludere qualsiasi rilievo alla tesi che precluderebbe di estendere la nullità della clausola degli interessi moratori anche a quelli corrispettivi di per sé superiori a quelli legali, perché – come visto – l’intenzione del legislatore del 1996 è stata quella di INASPRIRE le conseguenze dell’usurarietà degli interessi, passando cioè dalla debenza degli interessi legali a quella della “non debenza di interessi”, cioè della gratuità del contratto. Pertanto, è di solare evidenza che precludendo la detta estensione si finirebbe per consentire – pur in presenza di una usurarietà rilevata – l’applicazione di interessi corrispettivi superiori al saggio legale e tale effetto, come ampiamente osservato, è vietato dall’art. 4 della legge 7 marzo 1996 n. 108 che ha modificato l’art. 1815 2° comma c.c. secondo l’attuale formulazione sopra riportata.
Ciò posto, non può che condividersi la tesi della Corte barese secondo cui è contra legem distinguere ai fini della legge anti-usura le due tipologie di interessi corrispettivi e moratori, atteso che “rilevato il superamento del tasso soglia con riferimento a qualsiasi tipologia di interesse “a qualunque titolo convenuto”e quindi anche del tasso moratorio”, diviene “operativa, a titolo di sanzione per il mutuante, l’automatica conversione del mutuo da oneroso a gratuitoe quindi, ritenendo preservati gli interessi corrispettivi infra soglia sulla scorta della ontologica funzione fisiologica del contratto, si vanificherebbe l’effetto sanzionatorio previsto dal legislatore con la rilevata modifica del 2° comma dell’art. 1815 c.c.”
A supporto della suddetta interpretazione non vi sono solo le ragioni basate sulla lettera della legge e sulla portata innovativa delle modifiche introdotte nell’ordinamento dalla normativa anti-usura, come ha statuito la Corte d’Appello di Bari, ma anche ragioni d’ordine sistematico.
Infatti, l’unica definizione dell’usura rinvenibile nel nostro ordinamento è quella contenuta nell’art. 644 c.p., come riformulato a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 108/96. Pertanto, è la norma penale a regolare la fattispecie de quae tale norma contiene principi imperativi e d’ordine pubblico, che non ammettono deroghe di sorta.
È chiaro che se la Banca o l’intermediario finanziario avessero la possibilità di applicare interessi moratori ultra-soglia, si avvantaggerebbero in modo spropositato in danno del malcapitato mutuatario che, in caso di ritardo nel pagamento o, più in generale di inadempimento, vedrebbe accrescere in modo esagerato ed inusuale il suo debito, perdendo in pratica la possibilità concreta di adempiere, sia pur in ritardo e pagando interessi moratori. E ciò, a prescindere dalla mera potenzialità della lesione conseguente all’illecito o dalla concreta applicazione degli interessi moratori ultra-soglia.
Si è visto, infatti, che la legge di interpretazione autentica n. 24 del 2001 ha stabilito che la verifica della conformità dei mutui e, più in generale, dei contratti bancari alla normativa anti-usura va eseguita al momento della stipula del contratto. È in tale momento che va verificato il superamento o meno del Tasso Soglia d’usura.
Se, quindi, è vietato pattuire interessi ultra-sogliaed è al momento della stipula del contratto bancario che va eseguita la verifica della conformità del contratto medesimo alla normativa anti-usura non sono affatto condivisibili quelle tesi, espressamente filo-bancarie, che argomentando dai lavori preparatori al codice civile, tentano di attribuire agli interessi moratori una funzione ontologicamente risarcitoria e, quindi, di “penale da ritardo”, finendo in tal modo per auspicare la possibilità del Giudice di merito di ricorrere ai poteri di cui all’art. 1384 c.c., cioè di ridurre la penale ad equità, al fine di evitare l’applicazione della sanzione della gratuità del mutuo ogni qualvolta la violazione della normativa anti-usura sia individuabile nei soli interessi moratori ultra-soglia.
In contrario, osserviamo che, innanzitutto, non hanno alcun senso quelle tesi che richiamano la Relazione accompagnatoria al codice civile per giustificare una presunta, quanto inesistente, distinzione ontologica tra interessi “corrispettivi” ed interessi “moratori”.
Infatti, come ampiamente argomentato dalla Corte di Cassazione nella nota Ordinanza n. 27442 del 30 ottobre 2018 (cd. ordinanza “Rossetti”), la detta distinzione non ha alcuna ragione d’esistere, perché “interessi corrispettivi ed interessi convenzionali moratori sono ambedue soggetti al divieto di interessi usurari, perché ambedue costituiscono la remunerazione d’un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente.
Gli interessi moratori previsti dall’art. 1224 c.c., infatti, hanno la funzione di risarcire il creditore del danno patito in conseguenza del ritardo nel pagamento d’un debito pecuniario.
Mail danno che il creditore d’una somma di denaro può patire non può che consistere o nella necessità di ricorrere al credito, remunerando con l’interesse chi glielo conceda; o di rinunciare ad impiegare la somma dovutagli in investimenti proficui.
Tanto nell’uno, quanto nell’altro caso, il “danno” patito dal creditore d’una obbligazione pecuniaria altro non è che la conseguenza del principio economico della naturale fecondità del danaro.
Ma questo principio economico è altresì alla base del patto di interessi accessorio ad un contratto di mutuo.
Così come chi dà a mutuo una somma di denaro legittimamente esige un interesse, perché deve essere compensato della privazione di un bene fruttifero (il capitale), allo stesso modo chi non riceve tempestivamente la somma dovutagli deve essere compensato dei frutti che quel capitale gli avrebbe garantito, se ne fosse rientrato tempestivamente in possesso.
Tanto gli interessi compensativi, quanto quelli convenzionali moratori ristorano dunque il differimento nel tempo del godimento d’un capitale: essi differiscono dunque nella fonte (solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo) e nella decorrenza (immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi), ma non nella funzione.
La conclusione appena esposta è corroborata dalla giurisprudenza di questa Corte formatasi sull’art. 1224 c.c.; dalla Relazione al vigente codice civile e da autorevole dottrina.
Questa Corte, nell’interpretare l’art. 1224 c.c., ha già ripetutamente stabilito che questa norma disciplina sì il risarcimento del danno da inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, ma il “danno” da ritardato adempimento d’una obbligazione pecuniaria si identifica nella perduta possibilità per il creditore di investire la somma dovutagli, e trarne un lucro finanziario.
Questo “danno” è presunto dal legislatore juris et de jure nel suo ammontare minimo, che non può essere inferiore al saggio legale (art. 1224, comma primo, c.c.), poiché “non ha bisogno di essere provato il fatto che il denaro è destinato ad essere impiegato nell’acquisto di beni o servizi o comunque in forme remunerative; (…) risponde infatti alla natura della moneta che essa è non solo la misura dei valori ma è strumento di scambio, dotata appunto di valore nella misura in cui viene adoperata a questo scopo” (Sez. U, Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, Rv. 604419 – 01). Ciò conferma che gli interessi moratori, convenzionali o legali che siano, remunerano un capitale, né più, né meno, che gli interessi corrispettivi…”(Cfr. Cass. civ. Sez. 3° Ordinanza n. 27442 del 30 ottobre 2018)[2].
L’interscambiabilità tra interessi corrispettivi ed interessi moratori, inoltre, è espressamente prevista dal medesimo art. 1224 c.c. nella parte in cui, stabilisce che se l’ammontare degli interessi moratori non è pattuito, questi sono dovuti nell’ammontare previsto per gli interessi corrispettivi[3].
La normativa di ordine pubblico che regola l’usura (i.e. art. 644 c.p.), unitamente alla legge di interpretazione autentica del 2001 (i.e. L. n. 24/2001), riguardante sia l’art. 644 c.p. sia l’art. 1815, 2° comma c.c., vieta di inserirenei contratti pattuizioni usurarie e sanziona l’inserimento della pattuizione usuraria con la nullità parziale del contratto e la sua integrale gratuità. Proprio perché è vietato inserire pattuizioni usurarie in qualsiasi contratto, il giudice, chiamato a pronunciarsi sullo stesso, una volta rilevata la mora usuraria non può edulcorarne l’operatività tramite il ricorso ai poteri di cui all’art. 1384 c.c. ovvero mitigarne l’effetto mediante il ricorso a clausole di salvaguardia, da ritenersi invece nulle, perché non meritevoli di tutela proprio per il loro preciso ambito di azione, ai sensi dell’art. 1344 c.c.
L’usura bancaria, proprio perché reato di pericolo e, segnatamente, “reato in contratto”, proveniente da un operatore qualificato, qual è appunto la Banca o l’Intermediario finanziario, titolare di una posizione di garanzia nell’ordinamento non necessita del “pagamento” per il suo perfezionamento, come affermano le Sezioni Unite della Cassazione nella nota sentenza sull’usura sopravvenuta (Cfr. Cass. S.U.n. 24675 del 19 ottobre 2017).
Se ciò è vero, una volta rilevata l’usura in un qualsiasi contratto, sia pur limitata ai soli interessi moratori, il Giudice è tenuto ad applicare le conseguenze sanzionatorie previste dall’ordinamento, quale appunto la conversione del contratto da oneroso a gratuito, in virtù dell’espressa disposizione contenuta nell’art. 1815, 2° comma c.c., come modificato dall’art. 4 della L. n. 108/96, che – come visto – ha specificatamente inasprito con la gratuità del contratto usurario la sanzione prevista, quale strumento dissuasivo e rimediale, in caso di rilievo dell’usura oggettiva.
Né si può argomentare dal fatto che gli interessi moratori sono disciplinati dall’art. 1224 c.c. mentre quelli corrispettivi dall’art. 1282 c.c. per sostenere che gli interessi corrispettivi e quelli moratori abbiano “funzione e natura” diversi, atteso che, come insegna la Suprema Corte di Cassazione, l’unica distinzione tra le due tipologie di interessi in parola è costituita dal fatto che “storicamente i primi prescindevano dalla mora”, mentre “i secondi no. Differenza, quest’ultima, che costituisce ben esiguo fondamento per giustificare la sottrazione degli interessi moratori alla legislazione di contrasto all’usura”(Cfr. Cass. n. 27442/18 cit. – cd. “Ordinanza Rossetti”).
Allo stesso modo, non vale sostenere la tesi della diversità “ontologica” tra interessi “corrispettivi” e “moratori”, argomentando dai lavori preparatori al codice civile, per affermare che gli interessi moratori sarebbero sottratti al vaglio della disciplina anti-usura, perché – come si è visto – la detta distinzione non è storicamente attendibile, come insegna con dovizia di argomentazioni la Corte di Cassazione (Cfr. Cass. n. 27442/18 cit. – cd. “Ordinanza Rossetti”) ed anche perché, ammesso e non concesso che tale distinzione fosse realmente rinvenibile nei lavori preparatori, essa non avrebbe alcun senso pratico alla luce della Legge n. 108/1996 e della norma di interpretazione autentica (i.e. D.L. n. 394/200 convertito in L. n. 24/01)[4], cioè di norme successive alla Costituzione e che sono state già oggetto del vaglio di costituzionalità, rispetto ai lavori preparatori al codice civile che sono, invece, antecedenti alla Costituzione medesima.
È chiaro, dunque, che la sostanziale inoperatività dell’art. 644 c.p., dell’art. 1815, 2° comma c.c. e della L. n. 24/2001 in materia di interessi moratori usurari non può essere argomentata da presunti principi desunti dai lavori preparatori al codice civile, cioè da principi antecedenti all’entrata in vigore della Costituzione.
Tanto meno si può far riferimento alla tesi della disomogeneità, tanto cara ai giudici meneghini – secondo cui gli interessi corrispettivi e quelli moratori sarebbero “ontologicamente” disomogenei, poiché i primi remunerano un capitale, mentre i secondi costituiscono una sanzione convenzionale ed una coazione indiretta per dissuadere il debitore dall’inadempimento, e sono perciò assimilabili alla clausola penale; i primi sono necessari, i secondi eventuali; i primi hanno una finalità di lucro, i secondi di risarcimento – per sostenere che gli interessi moratori sarebbero sottratti alla disciplina anti-usura, oppure che la pattuizione di interessi moratori ultra-soglia non si rifletta sulla pattuizione di quelli corrispettivi.
Oltre a quanto fin qui affermato, anche in tal caso soccorre la nota “Ordinanza Rossetti”, secondo cui “la pretesa diversità strutturale tra i due tipi di interesse, se pure non raramente affermata, costituisce oggetto di un aforisma scolastico (supra,§§ 1.5 e ss.), non giustificata sul piano storico e sistematico”che “comunque non varrebbe a giustificare la diversità di disciplina sul piano dell’usura”, perché “tale interpretazione sarebbe infatti asistematica, contrastante con la ratio della L. 108/96; contrastante con una esperienza giuridica millenaria”(Cfr. Cass. n. 27442/18 cit.).
Continua la citata “Ordinanza Rossetti” affermando testualmente che “L’art. 2, comma 1, I. 108/96 stabilisce infatti che la rilevazione dei tassi medi debba avvenire per “operazioni della stessa natura”. E non v’è dubbio che con l’atecnico lemma “operazioni” la legge abbia inteso riferirsi alle varie tipologie contrattuali.
Ma il patto di interessi moratori convenzionali ultralegali non può dirsi una “operazione”, e tanto meno un tipo contrattuale. Esso può infatti accedere a qualsiasi tipo di contratto, ed essere previsto per qualsiasi tipo di obbligazione pecuniaria: corrispettivi, provvigioni, rate di mutuo, premi assicurativi, e via dicendo.
È dunque più che normale che il decreto ministeriale non rilevi la misura media degli interessi convenzionali di mora, dal momento che la legge ha ritenuto di imporre al ministro del tesoro la rilevazione dei tassi di interessi omogenei per tipo di contratto, e non dei tassi di interessi omogenei per titolo giuridico.
Ne discende che la mancata previsione, nella legge 108/96, dell’obbligo di rilevazione del saggio convenzionale di mora “medio” non solo non giustifica affatto la scelta di escludere gli interessi moratori dal campo applicativo della L. 108/96, ma anzi giustifica la conclusione opposta: il saggio di mora “medio” non deve essere rilevato non perché agli interessi moratori non s’applichi la legge antiusura, ma semplicemente perché alla legge, fondata sul criterio della rilevazione dei tassi medi per tipo di contratto, è concettualmente incompatibile la rilevazione dei tassi medi “per tipo di titolo giuridico”.
E non sarà superfluo aggiungere che la stessa Banca d’Italia, nella Circolare 3.7.2013, § 4, ammette esplicitamente che “in ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti – usura” (passo, quest’ultimo, che curiosamente la società controricorrente, pur richiamando e trascrivendo la suddetta circolare, a p. 23 del controricorso, omette)…”(Cfr. Cass. n. 27442/18 cit.).
Fatta la predetta precisazione e ribadito che il principio di omogeneità non risulta normativamente stabilito, spostiamo lo sguardo sui più recenti orientamenti della Suprema Corte al riguardo.
Innanzitutto, va esaminata la citata sentenza n. 26286 del 17/10/2019 della Terza Sez. civiledella Suprema Corte. Sul punto, non intendiamo tediare inutilmente il lettore con questioni già ampiamente trattate e, pertanto, ci riportiamo all’analisi dettagliata della prefata sentenza evincibile dalla “lettera aperta” della SOS UTENTI al link di seguito riportato (https://www.sosutenti.net/?s=lettera+aperta). Peraltro, la sentenza in commento contiene errori molto grossolani, come ad esempio quello di far riferimento a decreti ministeriali “semestrali”, mentre è noto che i decreti ministeriali di rilievo dei Tassi Soglia anti-usura (cioè, di rilievo dei TEGM e, di riflesso, dei Tassi Soglia) sono “trimestrali”, e non semestrali, così e come sono evidenti gli errori di base di calcolo desumibili con riferimento al rilievo e all’applicazione del c.d. “Tasso di mora soglia del 2,1%”, sui quali non intendiamo tediare il lettore essendo ampiamente trattati nella citata “lettera aperta”, cui ci riportiamo.
In ogni caso, qui ed ora occorre puntualizzare che anche tale sentenza riconosce che la pattuizione relativa agli interessi di mora è soggetta alla verifica dell’usura. Non sono condivisibili, tuttavia, le conseguenze che la Cassazione fa discendere da tale assunto.
Secondo la sentenza in questione, infatti, gli interessi moratori andrebbero valutati non con riferimento al Tasso Soglia di Usura rilevato nei TEGM, bensì con il cd.“Tasso di mora soglia”, cioè con il TEGM maggiorato del 2,1%. In disparte, l’evidente confusione in cui incorre la sentenza in commento nell’applicare il suddetto “Tasso di mora soglia”, in relazione al quale richiamiamo ancora una volta la “lettera aperta” della SOS UTENTI, riteniamo che la conclusione cui giunge la Cassazione non sia proprio condivisibile.
Infatti, la sentenza in commento pretende di agganciare il parametro di riferimento per la verifica dell’usura a un dato – i.e. il c.d. “tasso soglia di mora” formato tramite la maggiorazione del 2,1% – che in realtà non è previsto dalla legge, è privo di valore statistico giacché non risulta rilevato dai Decreti Ministeriali costantemente [cioè sempre, fin dalla data di entrata in vigore dei detti rilievi trimestrali (i.e. dal secondo trimestre 1997) in poi], è stato rilevato saltuariamente dalla Banca d’Italia di sua iniziativa, al di fuori della delega ministeriale e su una base di calcolo palesemente errata, giacché se fosse stato rilevato correttamente, cioè sulla base “dell’incidenza osservata nella media di tutte le operazioni della Categoria”si sarebbe ottenuto un risultato ben diverso.
Sotto quest’ultimo profilo, infatti, partendo dal presupposto che la mora interessa un numero contenuto di operazioniricomprese nella Categoria, mentre invece l’incidenza della mora sul costo del credito presuppone, diversamente, una media calcolata su tuttele operazioni della Categoria, si può comprendere che se la detta rilevazione fosse stata eseguita su tale corretta base di calcolo l’eventuale“maggiorazione del TEGM, riconducibile alla presenza della mora, sarebbe risultata assai esigua, presumibilmente prossima a pochi centesimi di punto”(Cfr. R. Marcelli “Atti del convegno “Usura Bancaria: A 20 anni dall’introduzione del presidio di legge”– Roma/Milano 7-10 novembre 2017). Ciò posto, va da sé che costituisce “un’operazione matematicamente scorretta, oltre che indebita, confrontare il costo del credito in mora con il TEGM maggiorato del 2,1%”(Cfr. R. Marcelli “Atti del convegno: “Usura Bancaria: A 20 anni dall’introduzione del presidio di legge”cit.).
A ciò si aggiunga che, i banchieri, nel determinare il costo di una determinata “linea di credito” hanno già valutato a monte – individuando il cd. “spread” del credito – l’indice di insolvenza e/o la patologia del credito stesso. In altri termini, la Banca, nell’attribuire un determinato “spread” ad un finanziamento, ha già valutato il rischio dell’insolvenza, che è quindi ricompreso nell’interesse corrispettivo. Pertanto, porre la mora in una diversa categoria, con un limite soglia più alto, determinato con un procedimento estraneo alla legge, equivale ad addossare all’utente bancario le conseguenze del “rischio di credito” che – come detto – il banchiere ha già “spesato” nell’attribuire un dato tasso corrispettivo ad una determinata linea di credito.
Né si dica che la distinzione tra interessi corrispettivi e moratori sia una distinzione ontologica che consente di attribuire a questi ultimi la funzione di “penale”, perché la tesi in questione si scontra palesemente contro i rilievi della Corte d’Appello di Bari sopra riportati.
In aggiunta, osserviamo che è proprio lo scopo espresso della legge di interpretazione autentica del 2001 a negare siffatta ipotesi.
Si legge nei lavori preparatori concernenti la disciplina in esame e, segnatamente, nel testo della relazione governativa di presentazione al Parlamento del D.L. n. 394/2000, convertito in L. n. 24/2001, quanto segue: “L‘articolato fornisce al comma 1 l’interpretazione autenticadell’art. 644 c.p.e dell’art. 1815 comma secondo c.c. Viene chiarito che quando in un contratto di prestito sia convenuto il tasso di interesse (sia esso corrispettivo, compensativo o moratorio) il momento al quale riferirsi per verificare l’eventuale usurarietà sotto il profilo sia penale che civile è quello della conclusione del contratto a nullarilevando il pagamento degli interessi“.
Se, quindi, la ratio della norma è quella di verificare al momento della pattuizione l’eventuale usurarietà degli interessi e, segnatamente, di tutti gli interessi sia di quelli corrispettivi che diquelli moratori, è chiaro che lavolontà del legislatore è una soltanto: quella di prendere in considerazione, ai fini della disciplina anti-usura, ogni tipo di interessi, a prescindere dalla loro funzione. Si legge in tal senso nell’Ordinanza del Tribunale di Massa del 23.3.2016 che “anchela pattuizioneo la promessadi interessi usurari peril caso della mora del debitore costituisce infatti uno strumento di abuso della posizione del creditore mutuante edi sfruttamento delladifficoltà economica del primo”[5].
Non può proprio ipotizzarsi che gli interessi di mora non siano soggetti all’unico ed esclusivo Tasso Soglia individuato dal legislatore e vigente nel nostro ordinamento. E ciò anche alla luce dell’insegnamento desumibile dalla fondamentale sentenza della Corte Costituzionale n. 29 del 25.02.2002che, nel valorizzare – appunto- il succitato riferimento fatto dal legislatore agli “interessia qualunque titoloconvenuti”, aveva già dal 2002 evidenziato espressamenteche il tasso soglia riguarda “anche gli interessi moratori”[6].
Superata la rilevanza della citata sentenza n. 26286 del 17/10/2019 della Terza Sez. civile della Suprema Corte, osserviamo che anche l’Ordinanza interlocutoria della Prima Sez. n. 26946 del 22 ottobre 2019presenta talune criticità.
È innegabile, infatti, che l’Ordinanza in questione, seppur indotta da molteplici pronunce dei giudici di merito, parta da presupposti paradossali. Si legge, infatti, nella citata ordinanza che sarebbe stata “evidenziata la reversibilità dell’argomento fondato sulla maggior convenienza che l’inadempimento potrebbe rivestire per il creditore, in caso di sottrazione degl’interessi moratori alla disciplina antiusura, essendosi rilevato che l’applicazione di tale disciplina, comportando l’azzeramento del debito degl’interessi, potrebbe favorire, per converso, anche comportamenti opportunistici del debitore”(Cfr. pag. 12 – Ord. n. 26946 del 22 ottobre 2019).
Come visto, l’art. 644 c.p., nonché la sanzione civilistica di cui all’art. 1815, 2° comma c.c., alla luce dell’art. 1 della legge n. 24/2001 di interpretazione autentica vietano, innanzitutto, la c.d. “promessa usuraria”, imponendo la verifica dell’usura al momento della stipula e/o della sottoscrizione del contratto bancario. Ciò significa, inequivocabilmente, che la norma penale vieta l’inserimento nel contratto di clausole che possano determinare il superamento del Tasso Sogliae, dunque, l’usurarietà del contratto. A maggior ragione nei contratti bancari, ove sussiste altresì la contrapposizione tra contraente forte (i.e. la Banca) e contraente debole (i.e. il cittadino o l’impresa di medio-piccole dimensioni), che dà luogo a testi contrattuali imposti, nei quali il contraente debole non ha alcun potere negoziale, può solo aderire o non aderire allo schema contrattuale imposto dal contraente forte. In breve, nella prassi bancaria, il mutuatario non ha il potere di sindacare se il tasso di mora è troppo alto o meno. Può solo accettare o non accettare il mutuo chiesto alle condizioni praticate ed imposte dalla Banca.
Dunque, pare paradossale chiedersi se il mutuatario, che – si ribadisce – non ha alcun potere contrattuale di negoziare i tassi di interesse (e meno che mai i tassi moratori!) possa – per assurdo – avvantaggiarsi dalla pattuizione di interessi moratori ultra-soglia. Questi, infatti, subisce tale imposizione e, in aggiunta, per effetto della stessa pattuizione risulta assoggetto al potere unilaterale e soggettivo della Banca di applicare in suo danno interessi di mora ultra-soglia, illeciti e che aggravano ed appesantiscono notevolmente la posizione del mutuatario medesimo, minando sensibilmente la sua concreta possibilità di far fronte e di adempiere, anche in ritardo, al debito accumulato.
Si pensi alla situazione in cui versa il mutuatario che subisce l’applicazione di interessi di mora ultra-soglia – che, in quanto tali, sono illeciti – e che, ciononostante, stia subendo altresì un’espropriazione immobiliare da parte di una Banca (o di altro intermediario finanziario) in forza di un mutuo contenente – appunto – i detti interessi di mora ultra-soglia. È chiaro ed evidente che, in tal caso, la mera applicazione di interessi di mora illeciti, in quanto ultra-soglia, aggrava ed appesantisce sensibilmente la sua posizione, impedendogli o aggravando l’esercizio dei propri diritti, costituzionalmente garantiti.
Eppure, come visto, la Cassazione si pone il problema di porre in correlazione l’eventuale azzeramento degli interessi che potrebbe conseguire al mutuatario che ha subito l’illecita pattuizione della mora usuraria a quello opposto, di estremo ed illecito vantaggio della Banca, che si verificherebbe se gli interessi moratori venissero sottratti alla disciplina anti-usura.
Generalmente il mutuatario incorre nell’applicazione di interessi moratori o perché ritarda il pagamento della rata di qualche tempo o perché viene a trovarsi nell’impossibilità di far fronte regolarmente agli impegni assunti con il finanziamento. Nel primo caso, la legge impone alla Banca di non procedere ad esecuzione forzata e, segnatamente, di non comminare immediatamente la decadenza dal beneficio della rateizzazione se non sono superati i termini di cui all’art. 40, 2° comma TUB[7]. La norma in questione, infatti, svolge lo scopo di limitare i poteri della Banca, proteggendo indirettamente il mutuatario con la garanzia di poter adempiere, seppur in ritardo, agli obblighi assunti.
In tal caso, dunque, vengono applicati interessi moratori e può trattarsi di una situazione momentanea e saltuaria o, addirittura, di una cd. posizione “incagliata”, che ricorre tutte le volte in cui il mutuo è ancora in essere, non essendo stata ancora comminata dalla Banca la sanzione della decadenza dal beneficio della rateizzazione con il conseguente passaggio “a sofferenza”.
Ebbene, in tali ipotesi gli interessi di mora vengono di fatto applicati in danno del mutuatario che, nel primo caso, può adempiere ripristinando la regolarità del mutuo, mentre nel secondo caso può stabilire con la Banca un cd. “piano di rientro” ed evitare in tal modo di subire l’espropriazione del bene ipotecato.
In ogni caso, in entrambe le ipotesi considerate, patologiche anche se in diversa misura, siamo di fronte ad interessi moratori applicati e che di fatto vengono pagati dal mutuatario, quale corrispettivo del ritardo.
Peraltro, una situazione similare può verificarsi pur in presenza di un’esecuzione forzata, fondata su un titolo esecutivo stragiudiziale (e, dunque, su un mutuo revocato, con applicazione di interessi di mora e decadenza dal beneficio della rateizzazione con conseguente passaggio della posizione “a sofferenza”). Anche in tal caso è astrattamente possibile che il mutuatario trovi un accordo transattivo con la banca, evitando l’esecuzione e, quindi, rimborsando il credito vantato dalla Banca medesima, comprensivo degli interessi di mora.
Ecco, dunque, che gli interessi moratori svolgono innanzitutto una funzione di corrispettivo del ritardo nell’adempimento, piuttosto che una funzione prettamente risarcitoria o di penale. Il Testo Unico Bancario ne prevede, infatti, l’applicazione nella suddetta prima fase, quella cioè normativamente disciplinata dall’art. 40, comma 2° TUB. Tale norma, come visto, priva la Banca della possibilità di risolvere immediatamente (e, in particolare, dopo il mancato pagamento di una sola rata nei tempi ivi indicati) il contratto di finanziamento, comminando la decadenza dal beneficio del termine.
Ciò significa che, nell’ordinamento, anche ai sensi dell’art. 40.2 TUB, gli interessi moratori non svolgono affatto una mera ed esclusiva funzione “risarcitoria” e/o di “penale”, bensì di “corrispettivo del ritardo” cui può riconoscersi altresì una funzione risarcitoria del ritardo medesimo.
Alla stregua dei suesposti principi non è possibile cercare di aggirare gli effetti della mora usuraria (i.e. gratuità del finanziamento) facendo riferimento alla tesi del c.d. “worst case” o del c.d. “tasso asintotico”(V. Tribunale di Torino 14/12/2019 – www.bancheepoteri.it), per rapportare in tal modo gli effetti della mora a tutta la durata del finanziamento.
Non ha alcun senso logico, oltre che pratico, rapportare la mora a tutta la durata del finanziamento. Nella prassi, infatti, non si rinvengono casi in cui la Banca abbia atteso l’intera durata del mutuo, lucrando interessi di mora, prima di intraprendere l’esecuzione forzata, a seguito del reiterato inadempimento del mutuatario. Si pensi all’ipotesi, in verità assurda, del mutuo trentennale in cui il mutuatario non paghi neppure la prima rata e la banca attenda ben trent’anni prima di intraprendere l’esecuzione forzata. È chiaro che trattasi di un’ipotesi astratta e di scuola, difficilmente realizzabile (e, anzi, mai verificatasi) nella prassi che, al contrario, manifesta esigenze di segno opposto. Come visto, l’art. 40, 2° comma del Testo Unico Bancario cristallizza il “ritardato pagamento”individuandolo in“quello effettuato tra il trentesimo e il centoottantesimo giorno dalla scadenza della rata”ed impone che la risoluzione del contratto possa essere comminata dalla Banca medesima quando “il ritardato pagamento (…) si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive”.
Ciò significa, in conclusione, che la mora ha un’incidenza ben precisa e specifica, individuabile nel momento in cui si verifica il ritardo nell’adempimento fino alla risoluzione del contratto. Per tale ragione, dunque, il suo calcolo e/o la sua incidenza non può essere rapportata all’intera durata del contratto, ma va invece ravvisata al momento della stipula, come impone l’art. 1 della L. n. 24/2001.
In siffatti casi, il Giudice, una volta rilevata l’usurarietà della pattuizione è obbligato ad applicare la sanzione civilistica di portata generale, codificata nell’art. 1815 2° comma c.c., senza possibilità di dar corso ad ulteriori valutazioni, finalizzate a stemperare il contenuto precettivo e di ordine pubblico della norma penale. La predeterminazione legale del “ritardato pagamento”di cui all’art. 40, 2° comma Tub, quale inadempimento rilevante, può costituire un valido presupposto normativo cui parametrare la verifica del TAEG.
Costituisce un paradosso, infatti, che il Giudice – ad esempio – con riguardo alla mora usuraria si chieda se la violazione del Tasso Soglia da parte della Banca (che – lo si ribadisce – quale “contrente forte” ha inserito nel contratto la clausola usuraria imponendola al “contraente debole”) possa risolversi in un “beneficio” per il debitore inadempiente, perché prima ancora che si sia verificato l’eventuale inadempimento del debitore è la Banca stessa che, dopo aver inserito la clausola usuraria nel contratto, può avvantaggiarsene chiedendo al debitore interessi usurari.
Allo stesso modo, avuto riguardo alle tesi della maggiorazione del 2,1% o del ricorso ai poteri di reductio ad aequitatemdi cui all’art. 1384 c.c., il Giudice, di fronte alla violazione di un precetto penale, anziché operare conformemente alla legge e, dunque, disporre la gratuità del contratto usurato, pone in essere, invece, una vera e propria attività di creazione normativa, in relazione alla quale è carente di potere, posto che non sussiste alcuna lacuna nell’ordinamento.
Si noti, infatti, che – da un lato – la tesi della maggiorazione del 2,1% ha lo scopo di eludere “a monte” l’illiceità della condotta; dall’altro, la tesi della reductio ad aequitatemex art. 1384 c.c. ha lo scopo ricondurre “a valle”, entro i termini della legalità, la pattuizione usuraria ab origine.
Trattasi, come accennato, di operazioni ermeneutiche viziate, giacché la norma di interpretazione autentica (i.e. art. 1 L. n. 24/2001) vieta l’inserimento di siffatte clausole nei contratti di qualsiasi natura o genere e, in particolare, in quelli bancari. Il Giudice, una volta rilevata l’usurarietà della pattuizione non può chiedersi se l’applicazione della sanzione civilistica di cui all’art. 1815, 2° comma c.c. nuoccia alla banca o – per assurdo – favorisca l’inadempimento, perché in tal modo sta già eseguendo valutazioni inammissibili, posto che la legge gli impone di riportare la propria valutazione al momento della stipula del contratto e di applicare la sanzione civilistica della gratuità del contratto medesimo, rimettendo gli atti all’Autorità penale, per quanto di competenza. Null’altro.
Tutte le ulteriori considerazioni sopra indicate sono, in realtà, attività precluse al Giudice, che non può costituzionalmente sovrapporsi al legislatore, svalutando principi cardini dell’ordinamento e favorendo, in tal modo, le Banche o gli Intermediari finanziari e, più in generale, i c.d. “poteri forti”, o magari fornendo spunti alla microcriminalità organizzata.
È ovvio ed evidente che legittimando una siffatta condotta si corre il rischio di finire nell’arbitrio, in violazione dei principi costituzionali di cui agli artt. 101, 104, 107 e 111 Cost.
Scarica >> Corte di Appello di Bari 23/01/2020 n. 125
[1]“è configurabile un illecito civile, in quanto sia comunque configurabile la violazione dell’art. 644 cod. pen., come interpretato dall’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000”(Cfr. Cass. S.U. Sent. 24675/17 punto 3.4.1)
[2]Si legge al punto 1.5.3., pag. 11 dell’Ordinanza n. 27442/18 (“Rossetti”) “che gli interessi convenzionali moratori e corrispettivi abbiano la medesima funzione economica è confermato indirettamente dalla Relazione al codice civile.Va ricordato, a tal riguardo, che nel codice civile del 1865 l’art. 1831, comma 4, vietava la pattuizione orale di interessi ultralegali (senza distinzione alcuna tra corrispettivi e moratori), e stabiliva che in caso contrario non fosse dovuto alcun interesse. Tale norma, come noto, non venne riprodotta nel codice civile del 1942. La Relazione al vigente codice civile afferma di avere ritenuto “eccessivo” riprodurre quella norma perché essa aveva lo scopo contrastare l’usura, ed era divenuta inutile dal momento che “contro l’usura può reagirsi penalmente” (così la Relazione del ministro guardasigilli alla maestà del Re Imperatore sul libro del codice civile “delle obbligazioni”, Roma, 1941, 57, § 60). Ora, se l’art. 1831 c.c. del 1865 non venne riprodotto nel codice del 1942 perché “contro l’usura può reagirsi penalmente”, e se l’art. 1831 c.c. del 1865 pacificamente era ritenuto applicabile a tutti gli interessi convenzionali (tanto corrispettivi quanto moratori), ciò dimostra che la Relazione dava per scontato che anche agli interessi moratori fossero applicabili le norme (in quel caso penali) contro l’usura”.Nel vigente ordinamento, la forma scritta ad substantiam per gli interessi ultra-legali, compresi i moratori, è imposta dall’art. 1284 3° comma c.c. Sempre nella medesima Ordinanza, a pag. 12 (punto 1.5.4), si legge altresì: “La forma scritta ad substantiam è richiesta dalla legge sia per gli interessi corrispettivi, sia per quelli moratori, e nessuno dubita che sia richiesta a tutela del debitore. Sarebbe, pertanto, illogico ritenere che la tutela del debitore apprestata dal codice civile si applichi ad entrambi i tipi di interessi, e quella apprestata dalla legge antiusura si applichi solo agli interessi corrispettivi. Identica è, nell’uno come nell’altro caso, la funzione degli interessi; identica è la posizione del debitore, ed identico è il rischio di approfittamento da parte del creditore”.
[3]L’ultima parte del 1° comma dell’art. 1224 c.c. recita: “Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, [1284comma 3] gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura [1950]”
[4]Le norme in questione in materia di interessi usurari hanno radicalmente modificato l’ordinamento, imponendo la verifica oggettiva da eseguirsi al momento della pattuizione
[5]Continua il Tribunale di Massa affermando: “Del resto, la disciplina civile (1815 c.c.) e penale (644 c.p.), così come la definizione generale di interesse moratorio (artt. 1 e 2 della L. n. 108/1996), fanno uso del termine “interessi” senza particolari declinazioni ed attributi, il che rende plausibile un’interpretazione massimamente espansiva della portata delle norme de quibus, tale da riferirsi a qualsiasi specie di “interessi” convenzionalmente previsti. Laddove il legislatore ha inteso escludere in materia di usura il rilievo di taluni oneri o costi, come quelli fiscali (art. 644, comma 4° c.p.), del resto, lo ha fatto con espressa previsione. Alla luce di un’esegesi sistematica della disciplina, attenta alla ratio protettrice ad essa sottesa, la stessa inclusione nel T.E.G. delle commissioni di massimo scoperto (esclusa in base alle originarie istruzioni della Banca d’Italia e poi contemplata in quelle dell’agosto del 2009), per effetto dell’art. 2-bis del D.L. 29.11.2008 n. 186, convertito in L. n. 2/2009 (ai sensi del quale è stato disposto testualmente che “gli interessi le commissioni, le provvigioni derivanti dalle clausole, comunque denominate, che prevedono una remunerazione, a favore della banca, dipendente dall’effettiva durata dell’utilizzazione dei fondi da parte del cliente sono comunque rilevanti ai fini de/l’applicazione dell’art. 1815 c.c., dell’art. 644 c.p. e della L. 7 marzo 1996, n. 108, artt. 2 e 3”) costituisce un significativo argomento a sostegno dell’irrilevanza della distinzione tra oneri economici fisiologici e patologici ai fini del controllo antiusura, atteso che dette commissioni (anch’esse collegate all’erogazione del credito) riflettono (esattamente come gli interessi di mora nel mutuo) la patologia del rapporto, che, in particolare, si esprime nello scoperto del conto corrente o nello sconfinamento di fido, come ha avuto modo di evidenziare la Corte regolatrice, che ha per l’appunto precisato che “il chiaro tenore letterale dell’art. 644 c.p., comma 4 (…) impone di considerare rilevanti, ai fini della determinazione della fattispecie di usura, tutti gli oneri che un utente sopporti in connessione con il suo uso del credito”(cfr. Cass. Pen. n. 12028/2010, parte motiva).
[6]Più precisamente, si legge nella sentenza della Consulta n. 29/2002: “Va inogni caso osservato – edilrilievo apparein sé decisivo – che il riferimento,contenuto nell’art. 1,comma 1, del decreto–legge n.394 del 2000,agli interessi “a qualunque titolo convenuti” rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto,del resto fatto proprio anchedal giudice di legittimità,secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori.“(cfr. Corte Cost. sent. n. 29/2002 cit.).
[7]L’art. 40, 2° comma del Testo Unico Bancario dispone: “La banca può invocare come causa di risoluzione del contratto il ritardato pagamento quando lo stesso si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive. A tal fine costituisce ritardato pagamento quello effettuato tra il trentesimo e il centoottantesimo giorno dalla scadenza della rata”.